Pur essendo all’inizio del mio percorso teatrale, ricordo ancora con tenerezza la prima falcata oltre la porta del Teatro della Verità. Falcata ricca di tutta la mia timidezza, delle mie aspettative, delle mie paure come un bambino davanti ad un drago e delle mie turbe “e se l’insegnate non mi sopporta? E se non lo sopporto io? E i compagni?”.

Da lì a poco qualcosa è cambiato, e infatti fino a una manciata di settimane fa quel martedì sera non era una semplice lezione, era respiro. In quelle due ore mi davo il permesso di lasciare il mondo fuori, assieme alle ansie e ai mal di testa. Mi davo il permesso di essere Andrea, col suo cinismo, le sue battute volgare, il suo essere cretino in un mondo che lo vorrebbe con super skills e in silenzio ad ascoltare. Quelle due ore erano terapia e riecheggiavano fino al martedì successivo, uscivo dagli incontri con una parola, una frase, un gesto o un volto da nutrire e coltivare di lezione in lezione.

Ho scelto il teatro, perché ho voluto scegliere qualcosa per me e uscire, giusto per un momento, dalla tagliola delle responsabilità, dei doveri e dei pensieri. L’ho scelto perché ho sempre avuto la brama di scavare in me stesso, di scoprirmi, di aprire e chiudere porte, di ritrovare qualcosa di vecchio e di scoprire qualcosa di nuovo, di migliorarmi e soprattutto di amarmi. È stata un’opportunità per mettermi un po’ in discussione, ma in una chiave diversa. Quelle lezioni a poco a poco si sono trasformate nella ricerca del mio sorriso, della mia voce, del mio poter dire “no” senza sentirmi costretto a dire sempre e soltanto “si”. Il teatro non è solamente palco, copione e battuta, ma sto scoprendo essere una guida personale che offre la chance di correggere, riconsiderare, rivedere quelli che sono i tuoi schemi e le tue impostazioni.

«È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di far uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre sé», Winnicott riscopre il gioco come forma di terapia, collocando da una parte il terapeuta e dall’altra il paziente, il primo deve essere in grado di giocare, mentre l’altro deve essere portato alla capacità di giocare. Abbandonando il campo terapeutico, per lui la creatività è quell’elemento che stimola a credere e apprezzare la vita. Oppure c’è Bettelheim, contestato per il vissuto burrascoso o i risultati degli studi a volte maneggiati, ma che colloca nella fantasia quel carburante in grado di far funzionare il motore.

Mi manca il teatro, mi mancano quelle pareti dell’aula e mi manca soprattutto uscire con quel sorriso e quella leggerezza. È ancora il momento di stare a casa per il bene nostro e della nostra comunità, ma è anche il momento di tenere alimentato il settore artistico. Ad un certo punto questa emergenza volgerà al termine e lì, l’arte, la musica, il teatro, le parole, dovranno tornare a svolgere il loro compito. Dovranno tornare a far ridere, piangere, sfogare, consolare e accompagnare. A loro modo, nelle loro mille forme, dovranno ricucire le mille ferite che questo isolamento ha causato.

Resto a casa, «distante fisicamente ma non socialmente», e resto pronto al domani quando bisognerà ricolorare i palcoscenici per tutti coloro che avranno bisogno di una carezza e per tutti coloro, che davanti ad un drago, vogliono trasformare la paura in coraggio.

Andrea Carbone

Allievo Corso teatrale Base


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